La flora e la vegetazione delle zone umide alpine
Il piano torboso del Paluaccio di Oga; sullo sfondo il Monte delle Scale
© Museo Civico di Storia Naturale di Morbegno (Photo: R. Ferranti)
© Museo Civico di Storia Naturale di Morbegno (Photo: R. Ferranti)
IL PALUACCIO DI OGA
E' un piccolo pianoro torboso (poco più di 30 ettari), posto a circa 1700 metri di quota, in prossimità del Forte di Oga, di fronte a Bormio.
"In questa località si trovava forse il più tipico esempio di torbiera alta delle Alpi Orientali lombarde. Dico si trovava perché in causa ad una profonda e prolungata estrazione di torba iniziata nel 1919 circa per contribuire per ben 10 anni all'alimentazione della fornace di Bormio, non rimangono che poche vestigia dall'aspetto primitivo".
Così Giacomini, in una sua pubblicazione del 1939, lamentava il pessimo stato di conservazione del Paluaccio di Oga. Egli, inoltre, riportava la descrizione che ne aveva fatto Levier nel 1901, a proposito di dossi di sfagno di circa 1 metro d'altezza, che ricordavano "la tundra gibbosa della Lapponia e della Siberia", e della presenza di specie interessanti tra cui Andromeda polifolia, Oxycoccos palustris (l'odierno Vaccinium microcarpum) e Paludella squarrosa, nonché "drosere, carici e giunchi di varie specie".
Anche Martino Anzi, nei suoi lavori sulle briofite valtellinesi, aveva più volte menzionato questa località come sito di notevole interesse.
E' un piccolo pianoro torboso (poco più di 30 ettari), posto a circa 1700 metri di quota, in prossimità del Forte di Oga, di fronte a Bormio.
"In questa località si trovava forse il più tipico esempio di torbiera alta delle Alpi Orientali lombarde. Dico si trovava perché in causa ad una profonda e prolungata estrazione di torba iniziata nel 1919 circa per contribuire per ben 10 anni all'alimentazione della fornace di Bormio, non rimangono che poche vestigia dall'aspetto primitivo".
Così Giacomini, in una sua pubblicazione del 1939, lamentava il pessimo stato di conservazione del Paluaccio di Oga. Egli, inoltre, riportava la descrizione che ne aveva fatto Levier nel 1901, a proposito di dossi di sfagno di circa 1 metro d'altezza, che ricordavano "la tundra gibbosa della Lapponia e della Siberia", e della presenza di specie interessanti tra cui Andromeda polifolia, Oxycoccos palustris (l'odierno Vaccinium microcarpum) e Paludella squarrosa, nonché "drosere, carici e giunchi di varie specie".
Anche Martino Anzi, nei suoi lavori sulle briofite valtellinesi, aveva più volte menzionato questa località come sito di notevole interesse.